Il Dio di Aristotele come

“centrale elettrica della natura”

Breve analisi del Περὶ χόσμον πρὸς Αλέξαμδρον in riferimento alla causazione del Primo Motore Immobile

 

Aristotle’s God as the “electric power plant of nature”


Brief analysis of the Περὶ χόσμον πρὸς Αλέξαμδρον

in reference to the causation of the Unmoved mover

 

Francesco Luigi Gallo

Pontificia Facultad Teológica de la Italia Meridional, Nápoles, Italia

gfrancescoluigi@gmail.com

 

DOI: https://doi.org/10.53439/stdfyt51.26.2023.75-103

 

Abstract:  In questo contributo vengono indagati alcuni concetti della teologia aristotelica (il concetto di divino e quello di trascendenza) a partire da un’espressione emblematica utilizzata dallo storico francese Étienne Gilson per descrivere il Primo Motore Immobile aristotelico: “centrale elettrica della natura”. L’espressione del noto studioso non è soltanto particolarmente accattivante, ma risulta essere filosoficamente assai significativa poiché veicola perfettamente il significato che assume il Dio di Aristotele nell’economia complessiva del cosmo, più in particolare nel ciclo eterno delle corruzioni e delle generazioni. La ricostruzione storica è finalizzata a mostrare la novità del messaggio cristiano contenuto nella Rivelazione e che trova nelle pagine di Tommaso d’Aquino una chiarezza concettuale, filosofico-metafisica, di eccezionale valore. In esse è possibile osservare la piena maturazione della nuova visione di tipo creazionista (basata sulla Metafisica dell’Esodo 3,14) che, pur in continuità con la visione aristotelica, ne approfondisce smisuratamente i presupposti metafisici.

 

Parole chiave: Aristotele, Tommaso d’Aquino, Dio (Aristotele), Dio (Bibbia), essere, creazione

 

Abstract: This contribution investigates some concepts of Aristotelian theology (the concept of divine and that of transcendence) starting from an emblematic expression used by the French historian Étienne Gilson to describe Aristotle’s God: “electric power plant of nature”. The expression of the well-known scholastic is not only particularly captivating, but it turns out to be philosophically very significant because it perfectly conveys the meaning that Aristotle’s God assumes in the overall economy of the cosmos, more particularly in the eternal cycle of corruptions and generations. The historical reconstruction is aimed at showing the novelty of the Christian message contained in Revelation and which found in the pages of Thomas Aquinas. In them it is possible to observe the full maturation of a new vision of the world of the creationist type (based on the Metaphysics of Exodus 3,14) which, in continuity with the Aristotelian vision, immeasurably deepens its metaphysical presuppositions.

 

Keywords: Aristotle, Thomas Aquinas, God (Aristotle), God (Bible), being, creation

 

Recibido: 16/02/22

Aprobado: 04/07/22

 

Introduzione

Sui modi di conservazione delle creature

indirecte et per accidens e per se et directe

 

Per impostare correttamente questo lavoro vorrei subito richiamarmi ad alcune importanti osservazioni di Gilson (1947) sulla teologia di Aristotele esposte ne Lo spirito della filosofia medievale. Sarà utile, inoltre, ricostruire brevemente anche il confronto che l’illustre storico francese ha fatto tra quegli aspetti della metafisica dell’essere greca e quella cristiana, considerando in particolare Aristotele e Tommaso d’Aquino. Comincerei l’indagine dal concetto di divino inteso come attributo. Per Aristotele, anche se questa considerazione può essere estesa fino a coinvolgere direttamente la grecità quasi nella sua totalità, “l’attributo di divino ammette dei gradi”, perché “ci sono realtà più o meno divine e c’è la divinità suprema” (Berti, 2005, p. 384). “Il concetto greco di divinità”, infatti, “è essenzialmente quello di vivente immortale” (p. 384). Per Aristotele questi due requisiti, cioè il possesso della vita e l’eternità e l’incorruttibilità di questo possesso, non sono aspetti essenziali e peculiari di un solo Ente Supremo, ma sono le caratteristiche di tre generi di enti: “i corpi celesti (astri, cielo e relativa materia, cioè l’etere); la natura nel suo complesso e specialmente nelle sue parti più elevate, cioè l’uomo ed il suo intelletto; le sostanze immobili, motori dei cieli” (p. 384). Se è vero che questa concezione religiosa potrebbe essere estesa alla mentalità greca quasi nella sua interezza, è altrettanto vero, però, che per Aristotele essa assume anche uno spessore filosofico non indifferente.

La concezione ontologica di Aristotele, infatti, porta a compimento –e direi fino alle sue estreme conseguenze– la manovra anti-eleatica che già Platone aveva avviato nel Sofista, concedendo la dignità di vero essere anche alla natura considerata nel suo complesso. Se è vero, infatti, che gli enti particolari, costituenti le specie, essendo soggetti alla generazione e alla corruzione, nascono e muoiono soddisfacendo così solo il primo requisito greco di divinità, cioè il possesso della vita, ma non il secondo, cioè l’eternità e quindi l’incorruttibilità di tale possesso, è altrettanto vero che le specie, invece, mantengono un certo equilibrio e una certa continuità nel tempo, e questo risultato lo raggiungono sacrificando i loro membri; la continuità nel tempo, infatti, è il modo in cui i viventi mortali partecipano all’eternità (Berti, 2005, pp. 39-67). Ancor di più la natura nel suo complesso, quindi, soddisfa pienamente questi due requisiti. Per i cristiani, invece, le cose stanno diversamente. “Per un cristiano”, scrive Gilson (1947), “non possono sussistere esseri più o meno divini, se non per analogia o per metafora; per parlare propriamente, non ci sono che un Dio, che è l’Essere, e degli esseri che non sono Dio” (p. 42). La divinità, per i cristiani, non è estendibile ad una classe di esseri, ma è connessa in modo essenziale ad un solo Essere, l’unico Dio Supremo dal quale la realtà dipende in tutto in modo fondamentale:

 

se il suo Primo Motore immobile è il più divino e il più essere degli esseri, resta uno degli “esseri in quanto esseri”. Mai si potrà negare che la sua teologia naturale abbia per oggetto proprio una pluralità di esseri divini, e ciò basterebbe a distinguerla radicalmente dalla teologia naturale cristiana. Per lui l’essere necessario è sempre un collettivo; per i cristiani è sempre un singolare [corsivo miei]. (Gilson, 1947, p. 43)

 

Per Aristotele, com’è noto, l’essere non è una proprietà essenziale di nessun ente, neanche di quello Sommo, mentre per i cristiani, a partire dal paradigma dell’Esodo 3,14, l’essere appartiene essenzialmente solo a Dio e in modo totalmente dipendente da Lui (quindi partecipativo) anche alle creature. Ancora Gilson (1947) evidenzia bene questo punto quando scrive:

 

Supponendo pure che il Dio di Aristotile fosse una causa motrice ed efficiente propriamente detta, ciò che non è sicuro, la sua causalità cadrebbe su di un universo che non gli deve l’esistenza, su esseri di cui l’essere non dipende dal suo. (p. 59)

 

Se il cosmo concepito da Aristotele non deve la sua esistenza a Dio, e su questo punto il rilievo di Gilson è perfettamente calzante, gli deve però il suo mantenimento nell’essere in un modo che Tommaso d’Aquino ha chiarito perfettamente. In un articolo importantissimo della Somma Teologica, l’Aquinate indaga su di un problema di non poco conto: “videtur quod creaturae non indigeant ut a Deo conserventur in esse” (I, q. 104, a. 1). Dopo aver presentato tutta una serie di argomenti a sostegno della tesi che le creature non hanno bisogno di Dio per conservarsi in esse che qui non è necessari esaminare, Tommaso, com’è suo solito fare, risponde presentando una sottile distinzione che, come spesso accade nelle opere dell’Aquinate, mostra dei punti di vista ulteriori dai quali il problema può essere affrontato e risolto in modo soddisfacente. Tommaso distingue tra due modalità di conservazione nell’essere: 1. Il primo è per accidens: “ed è il caso di chi tiene lontano da una cosa quanto potrebbe distruggerla”; 2. Il secondo modo è per se et directe: “quando cioè la cosa conservata dipende talmente da chi la conserva, da non poter esistere senza di esso”.

Sulla base di questa distinzione (che è ontologica e concettuale), e quindi retrospettivamente, si potrebbe sostenere che il Primo Motore Immobile conservi il cosmo nel primo modo[1] indicato dall’Aquinate, mentre il Dio dei cristiani lo conserva fondamentalmente e principalmente nel secondo modo. La conservazione degli enti per accidens, spiega ancora Tommaso, concerne soprattutto il divenire, ma non l’essere stesso di ciò che diviene:

 

Così chi edifica una casa è causa del divenire di essa [della sua costruzione], ma non direttamente del suo essere. È evidente infatti che l’essere della casa segue alla forma della casa: la quale forma, consistente nell’ordinamento e nella struttura, dipende dalle proprietà fisiche del materiale usato. (S. Th. I, q. 104, a. 1)

 

Mentre nel modo di conservazione per se et directe gli enti sono talmente dipendenti dalla causazione dell’Esse Ipsum Subsistens che se per un attimo cessasse, essi cesserebbero di esistere e verrebbero annichilati: “quod est eas in nihilum redigere” (S. Th. I, q. 104, a. 3).

Si comprende bene, perciò, il senso di questa osservazione puntuale di Gilson (1947): “Aristotele e Platone hanno costruito un arco magnifico, di cui tutte le pietre salgono verso questa chiave di volta; ma essa non è stata messa in opera che grazie alla Bibbia, e furono cristiani quelli che la collocarono” (p. 64). L’attività del Primo Motore Immobile garantisce l’equilibrio cosmico tra le generazioni e le corruzioni, mantenendo stabile, nel suo complesso, la vita del cosmo e degli enti (la quale vita è divina, nel suo complesso, perché a suo modo partecipa dell’eternità). Tuttavia, come ancora lo studioso francese ha sottolineato in modo puntuale, “il primo principio di tutto l’essere, quale Platone e Aristotele l’hanno concepito, spiega interamente perché l’universo è ciò che è, ma non perché è” (p. 55). Difatti è vero che il Primo Motore Immobile è assimilabile alla “centrale elettrica della natura” (p. 61), la cui causalità mette in moto tutta una serie d’ingranaggi che mantengono in vita il cosmo[2]. Il Primo Motore Immobile è paragonabile ad un “ingegnere capo di questa vasta impresa” (p. 61) che è, per l’appunto, il mantenimento della vita stessa del cosmo.

Proprio Aristotele, che nel primo libro della Metafisica aveva introdotto la distinzione tra gli empirici che conoscono il che, e i sapienti, cioè i filosofi, che invece conoscono il perché delle cose, non è riuscito a transitare dall’attestazione, seppur critica e filosoficamente rilevante, del dato di fatto, cioè dall’attestazione delle sei specie di movimento –“Del movimento vi sono sei specie: generazione, corruzione, aumento, diminuzione, alterazione e mutamento secondo il luogo” (Cat., 14)– al Fondamento ultimativo, cioè al perché dell’esistenza di queste specie di movimento che interessano trasversalmente tutte le categorie dell’essere. Far luce sul complesso circuito continuo delle generazioni e delle corruzioni (è questo, in definitiva, il filo conduttore rintracciabile nel pensiero aristotelico) non vuol dire, evidentemente, spiegarne il perché ultimo. Infatti “le considerazioni con cui Aristotele presenta la natura del motore immobile”, è stato giustamente osservato:

 

Mettono in luce che la preoccupazione del filosofo è fondamentalmente rivolta a garantire la perpetuazione del sistema cosmologico, tanto nella sua configurazione quanto nel suo movimento, la cui eternità quel principio è innanzitutto chiamato ad assicurare, e con essa la φύσις, con il suo intrinseco finalismo. (Fisica, pp. 84-85)

 

Né il finalismo aristotelico, così come è stato interpretato e spiegato da Berti (2005), aggiunge qualcosa ai, seppur sintetici, rilievi appena fatti, posto che in Aristotele

 

C’è una connessione fra teleologia e teologia, ma non nel senso che tutte le cose abbiano per fine Dio, o che Dio abbia assegnato un fine a tutte le cose, bensì nel senso che, tendendo ciascuna cosa al suo proprio fine, si realizza un ordine complessivo, il quale non si reggerebbe se non ci fosse un primo motore immobile che, muovendo come fine il primo cielo e trasmettendo in tal modo il movimento attraverso i cieli fino alla terra, tiene insieme, per così dire, l’intero universo. (p. 67)

 

Il finalismo di Aristotele si declina specie per specie, ente per ente in un “comune risultato”, e non in “un fine comune” (Berti, 2005, p. 66) e, pertanto, si capisce bene che l’azione causale (sia essa efficiente o finale, o entrambe insieme) del Primo Motore Immobile, cioè della massima espressione dell’essere nel sistema aristotelico, è l’eterna garanzia della vita della natura, niente di più.

D’altra parte, ciò che dalla nostra prospettiva cristiana oggi consideriamo una incompiutezza, per Aristotele era invece una concezione del mondo per sé compiuta che giustificava pienamente ogni aspetto del reale in modo definitivo e completo. Difatti, dalla prospettiva della ragione naturale, della quale Aristotele fu massima espressione dell’età antica, la “teoria dei moti-luoghi naturali”[3], impediva di pensare, ad esempio, alla differenza fra “uno stadio precosmico ed uno stadio cosmico della realtà”, posto che da tale concezione risultava che “tutto ciò che esiste, da quando esiste, esiste entro quel sistema ordinato che è il cosmo” (Bianchi, 1984, p. 43). Mi sembra dunque particolarmente azzeccata l’ espressione usata da Gilson per descrivere il Primo Motore Immobile, vale a dire “centrale elettrica della natura”. In questo modo lo storico francese ha colto perfettamente la vera, oltre che unica, funzione del Dio di Aristotele, che è quella di tenere in moto e in equilibrio il cosmo, senza mai spiegarne l’esistenza in modo ultimativo. Vedremo, infatti, che non per uno sforzo teoretico umano, ma per una concessione divina, cioè per Rivelazione, gli uomini hanno guadagnato la consapevolezza (e la conoscenza) che il mondo dipende in tutto dalla libera e amorevole volontà di Dio, a partire dalla possibilità stessa della sua esistenza.

 

Breve analisi del Περὶ χόσμον πρὸς Αλέξαμδρον: l’eterna attività

di Dio causa l’armonia dei contrari e quindi l’eternità

del mondo e la sua stabilità

 

È stato scritto che il concetto di Dio elaborato da Aristotele sia “il più alto che l’uomo sia mai riuscito ad elaborare senza l’ausilio di alcuna rivelazione, cioè con le sole facoltà naturali” (Berti, 2005, p. 391). Sebbene “il Dio dei filosofi greci” non possieda “tutta la ricchezza di significato che è propria del Dio della Bibbia, quale solo la rivelazione poteva rendere nota”, non si può negare a parere di uno studioso come Berti, che “il concetto biblico di Dio presuppone ed include, dal punto di vista logico, quello elaborato dai filosofi greci, pur superandolo infinitamente” (p. 391). Difatti, per usare le parole dello stesso Tommaso (S. Th. I, q. 104, a. 1) la Rivelazione cristiana ha ampliato la teologia aristotelica scoprendo oltre la causazione per accidens del Primo Motore Immobile[4], anche la causazione per se et directe.

Per inquadrare meglio il problema della causalità di Dio secondo Aristotele, nel il prosieguo di questo lavoro prenderò in considerazione gli ultimi due capitoli della sezione teologica del Περὶ χόσμον πρὸς Αλέξαμδρον [Il trattato Sul cosmo per Alessandro attribuito ad Aristotele], un trattato breve, ma tuttavia denso, ricchissimo di informazioni ed estremamente utile per lo studio delle modalità in cui è concepito il rapporto tra Dio e il cosmo in prospettiva aristotelica (l’edizione è quella di Bos e Reale, 1995). Ma prima di prendere in considerazione i capitoli sesto e settimo del trattato, così da evitare un inizio ex abrupto dell’analisi, ritengo opportuno prendere in considerazione un passo molto importante della prima parte dell’opera, cioè della parte cosmologica, che c’introdurrà perfettamente ai capitoli conclusivi. Dopo un breve ma intenso elogio della filosofia (cap. 1), nel secondo capitolo l’autore[5] del trattato ci fornisce due definizioni di cosmo:

1. Prima definizione: “Il cosmo, dunque, è il complesso costituito dal cielo e dalla terra e da tutte le sostanze naturali in questi contenute”;

2. Seconda definizione: “[Cosmo] vuol dire anche l’ordine e la sistemazione della totalità delle cose, conservata ad opera di Dio e in funzione di Dio” (Il trattato Sul cosmo, cap. 2, p. 177);

 

Le due definizioni solo apparentemente si contraddicono. Esse in realtà si completano vicendevolmente, confermando la “cifra spirituale che caratterizza il pensiero dello Stagirita” che è “l’ascesa dal fisico al teologico” (Bos e Reale, 1995, p. 254). La prima definizione, infatti, considera il cosmo in se stesso, cioè relativamente alla sua costituzione fisica e strutturale: forma sferica del cielo, l’ordine dei pianeti e delle rispettive sfere, la costituzione eterea del cielo, la fascia ignea, quella aerea (sede dei fenomeni meteorologici), e poi ancora i fenomeni meteorologici causati dalle continue esalazioni della terra, e così via. La seconda definizione, invece, completa la prima in questo modo: dopo la trattazione propriamente scientifica (che va dal secondo al quinto capitolo), l’immagine del cosmo che emerge è quella di una grande e complessa struttura finita, costituita da elementi contrari, ma che tuttavia si mantiene[6] eternamente stabile e in ordine. La seconda definizione, quindi, prende le mosse non più dalla prospettiva fisico-cosmologica, ma da quella teologica, la quale considera il cosmo in costante riferimento alla continua ed eterna azione causale del Primo Motore Immobile.

Com’è possibile, dunque, che il cosmo non si distrugga, ma che anzi continui a permanere sempre identico, nel suo complesso e in costante equilibrio? Qual è la causa che fa sì che il cosmo resti eternamente stabile, nonostante la spinta contraria degli elementi che lo compongono? Queste domande non troverebbero risposta se si cercasse di rispondere tenendo presente solo la prima definizione di cosmo, quella fisico-cosmologica.

Ecco dunque che si ripropone nel Περὶ χόσμον ciò che già nel Simposio di Platone era emerso dal discorso di Erissimaco. Durante il simposio, subito dopo l’accattivante discorso di Pausania che aveva distinto un Eros Volgare e un Eros Celeste[7], parla Erissimaco, il medico e scienziato naturalista, il cui merito indiscusso è quello di aver esteso il discorso sull’Eros “dalla dimensione antropologica a quella universale cosmica”[8]:

 

La distinzione di un duplice Eros mi pare che sia esatta, ma che esso non sussista soltanto nelle anime degli uomini per i belli, ma che sussista altresì in altre cose e per molte altre cose, ossia nei corpi di tutti gli altri animali, nei vegetali che crescono sulla terra e, in una parola, in tutte le cose che sono. (Simposio, 186A)

 

Nonostante il suo guadagno fondamentale, nel discorso di Erissimaco permane un “grosso buco”. Inoltratosi nel discorso, infatti, il medico prende in considerazione una tesi di Eraclito –“egli afferma infatti, che l’Uno in sé discorde, con sé medesimo s’accorda, come l’armonia dell’arco e della lira” (fr. B. 51 DK)– al fine di criticarla:

 

Ed è molto strana l’affermazione che l’armonia sia discorde, o che sorga da cose discordi. Ma forse egli voleva dire questo, e cioè che l’armonia nasce da cose prima discordi, l’acuto e il grave, e poi rese concordi dall’arte della musica. Infatti, non sarebbe certamente possibile che nascesse armonia da cose che rimangono tuttavia discordi, ossia l’acuto e dal grave, giacché l’armonia è consonanza e la consonanza è un consenso. Il consenso, però, non può nascere da cose discordanti, fino a che rimangono discordanti. E ciò che è discordante e non è accordato è impossibile ridurlo ad armonia. (Simposio, 187A-B )

 

Manca al medico la concezione dell’Unità suprema, misura di tutte le cose. In altri termini, Erissimaco, non compie quella “seconda navigazione” che pure era necessario fare al livello raggiunto dal suo discorso, e resta dunque ancorato al piano dei fisiologi, e pertanto non approda, nella sua fase finale (della “seconda navigazione” intendo), al vertice originario della realtà: al piano dei Principi. È abbastanza evidente, infatti, che

 

Erissimaco non fa affatto riferimento a ciò in funzione di cui si può infondere amore e concordia negli opposti: afferma il “che” e non sa dire il “perché” […] In altri termini: non giunge affatto ai fondamenti ontologici dei suoi asserti, appunto perché rimane sul piano dei filosofi naturalisti”. (Simposio, 187A-B)

 

Se non si compie la “seconda navigazione”, l’ordine cosmico, inteso come armonia degli opposti, resta privo di fondamento ontologico.

È proprio questo fondamento ultimo, che in Aristotele è il Primo Motore Immobile, che entra in gioco nella seconda definizione di cosmo del Περὶ χόσμον:

 

[cosmo] vuol dire anche l’ordine e la sistemazione della totalità delle cose, conservata ad opera di Dio e in funzione di Dio”. Difatti il capitolo quinto del trattato si apre con questa considerazione: “a dire il vero, qualcuno si è chiesto con meraviglia come mai il cosmo, essendo costituito di principi contrari, ossia di secco e umido, di freddo e caldo, non sia andato distrutto e in rovina già da molto tempo. (Il trattato Sul cosmo, cap. 5, p. 207)

 

Ma la constatazione di questo fatto non deve lasciare meravigliato il filosofo troppo a lungo, perché

 

È come se ci si meravigliasse come mai una città continui ad esistere, essendo costituita da classi completamente opposte fra loro, ossia da poveri e da ricchi, da giovani e da vecchi, da deboli e da forti, da cattivi e da buoni. Chi si meraviglia di ciò, ignora che questa appunto è la caratteristica più stupefacente della concordia politica: intendo dire il fatto che essa realizza un ordinamento unico, pur partendo da una molteplicità di elementi, e che pur partendo da elementi eterogenei essa realizza un ordinamento omogeneo e resistente all’assalto di qualsiasi avvenimento, naturale o fortuito che sia. (Il trattato Sul cosmo, cap. 5, p. 207)

 

Ma è proprio l’eterna causazione di Dio, che si estende al cosmo intero, a fungere da garanzia eterna del suo mantenimento:

 

Della sua potenza [scil. cioè del Primo Motore Immobile] beneficia in sommo grado il corpo che è più vicino a lui, poi il corpo che viene subito dopo quello, e così di seguito fin dove iniziano i luoghi in cui noi ci troviamo. (Il trattato Sul cosmo, cap. 6)

 

La trasmissione della dynamis di Dio penetra fino agli angoli più remoti del cosmo, venendo in soccorso delle realtà “deboli, incoerenti e piene di grande confusione” (Il trattato Sul cosmo, cap. 6), cioè delle realtà sublunari soggette alla generazione e alla corruzione.

Che il Primo Motore Immobile sia il “principio che giustifica tutto il processo” (De gener. et. corr. p. XLVI) ciclico delle generazioni e delle corruzioni emerge perfettamente soprattutto dal De generatione et corruptione di Aristotele, ed in particolare da questo passo emblematico del decimo capitolo del secondo libro:

 

Inoltre, se si vuole spiegare il movimento, si deve necessariamente porre un qualche motore. Come si è detto precedentemente in altri discorsi, se il movimento è eterno, occorre che ci sia un qualche motore eterno; se è continuo, il motore dev’essere uno, identico, immobile, ingenerato, inalterabile; se poi i movimenti circolari sono molteplici, devono esserci più motori, ma tutti quanti devono essere in qualche modo sottoposti ad un unico principio. (De gener. et. corr. II, 10, 337 a 16 e sgg.)

 

Trova conferma in questo passo la felice espressione di Gilson che considera Dio come la “centrale elettrica della natura”. Il Primo Motore Immobile, infatti, muove eternamente il cielo delle stelle fisse che, a sua volta, garantisce anche l’eterno movimento del sole, la cui rivoluzione sul cerchio obliquo (eclittica) intorno la terra(come mostrerò fra poco), determina a) la generazione e la corruzione degli enti, b) la continuità di questi processi, poiché il movimento del sole è eterno nella misura in cui è eterna l’azione causale del primo cielo, in quanto, in ultima analisi,eterna e continua è l’attività causale di Dio.

Il Primo Motore Immobile mantiene in vita la natura, pur non essendo il creatore della vita. Detto in altri termini: il Dio di Aristotele causa il movimento degli ingranaggi della natura –La dynamis del Περὶ χόσμον è proprio questo eterno movimento vivificatore–, ma non ne è il costruttore. Così come la felice espressione di Gilson, anche il passo di Berti che sopra ho riportato, proprio all’inizio di questo paragrafo, trova conferma in queste sintetiche considerazioni: “il concetto biblico di Dio presuppone ed include, dal punto di vista logico, quello elaborato dai filosofi greci, pur superandolo infinitamente”. Il Primo Motore Immobile fornisce la necessaria energia per la conservazione della vita della natura (movimento degli astri e generazioni e corruzioni nella sfera sublunare), fornendoci un quadro coerente e chiaro dei meccanismi cosmici sia nel loro complesso, sia in particolare. Tuttavia, solo la Rivelazione avrebbe in seguito ampliato infinitamente, e a tutti i livelli, il concetto di Dio così come fu concepito da Aristotele, incorporandolo in quella che dopo, con un’altra felice espressione, sarebbe stata chiamata “metafisica dell’Esodo” (Mondin, 2002, p. 124), in grado di rispondere, in una certa misura, anche a quelle domande alle quali la teologia di Aristotele non era in grado di rispondere –È certo, anzi, non solo che lo Stagirita non avrebbe saputo rispondere, ma anche che non si è mai posto queste domande, per i motivi che emergeranno alla fine di questo lavoro–:

 

In effetti ciò che Aristotele vuole spiegare col Motore immobile non è l’origine prima del movimento (kinesis) e della generazione (genesis), ma soltanto la sua eternità, “è impossibile che il movimento si generi e perisca poiché è sempre stato”. (Mondin, 1998, p. 350)

 

Poiché:

 

Aristotele parte dal presupposto dell’eternità del mondo, un mondo che, tuttavia, non ha in sé la ragione della sua eternità: essendo in divenire, ossia in una condizione di perpetua incompiutezza, non autogiustifica la propria eternità. È l’eternità del mondo, cioè di una realtà caduca che di per sé non può essere eterna, e non l’intrinseca radicale contingenza dell’essere mondano che esige una causa prima. È il non essere relativo della potenza, non il nulla radicale di ciò che è finito ad esigere il Motore immobile. (Mondin, 1998, p. 350)

Vorrei ora concentrarmi brevemente anche sul concetto di trascendenza così come emergere da alcuni testi di Aristotele. Che il Primo Motore Immobile sia, nella gerarchia dei Motori Immobili, il Primo, e che quindi funga in un certo senso da Principio, determina anche la sua trascendenza rispetto al cosmo?

Nel De generatione et corruptione (II, 9) lo Stagirita rileva che occorre aggiungere un “terzo principio” alla materia e alla forma, per far luce sui meccanismi fondamentali del circuito delle generazioni e delle corruzioni del mondo sublunare. Questo terzo principio dovrà essere quella causa in grado di giustificare il passaggio da un forma all’altra (da un contrario all’altro) rispetto ad una materia preesistente. Questa causa, secondo Aristotele è stata solo intravista “come in sogno” dai filosofi precedenti, ma nessuno ne ha veramente parlato. Dopo una serie critiche sferrate dallo Stagirita sia ai monisti sia a Platone, nel capitolo successivo, cioè il decimo, coerentemente alla sua concezione astronomica, Aristotele fa luce sia sulla causa prossima (“causa generatrice”) della generazione, cioè il movimento del sole lungo l’eclittica, sia sulla causa remota, cioè la causazione eterna del Primo Motore Immobile e il movimento, anch’esso eterno e continuo, del primo cielo che avvolge l’intero cosmo trasmettendogli il movimento. La rivoluzione del sole lungo il cerchio zodiacale scioglie perfettamente due nodi molto problematici che erano emersi nella trattazione precedente: a) la necessaria continuità dei processi di generazione e corruzione, e b) la giustificazione di due effetti contrari, per l’appunto la generazione e la corruzione, a partire da una sola ed unica causa (posto che ad un certa causa non possono seguire, secondo Aristotele, effetti contrari). Il movimento uniforme e continuo delle stelle fisse, cioè la causa remota delle generazioni e delle corruzioni del mondo sublunare, assicura la continuità del processo, mentre la contrarietà degli effetti a partire da una sola causa è giustificata dall’angolo d’inclinazione dell’eclittica rispetto all’equatore terrestre. Il sole, quindi, nel suo moto di rivoluzione intorno la terra si trova, in alcuni punti della sua rivoluzione, ad occupare posizioni diverse rispetto alla terra, determinando così un continuo squilibrio delle forze in gioco nel mondo sublunare:

 

Dunque la causa della continuità è la traslazione di tutto il cielo, mentre quella dell’avvicinamento e dell’allontanamento del sole è l’inclinazione: da questo deriva il fatto che il sole sia ora lontano, ora vicino. E poiché la distanza è ineguale, il movimento sarà irregolare, cosicché se il sole genera avvicinandosi e stando vicino, esso corrompe allontanandosi e stando lontano, e se genera per via di numerosi accostamenti, corrompe anche per via di numerosi allontanamenti; infatti le cause di effetti opposti sono opposte. (De gener. et corr. II, 10)

 

La vera causa prima (che dalla prospettiva umana risulta essere la causa remota) che mette in moto l’intero universo[9] resta, però, il Primo Motore Immobile. Ecco le parole precise dell’autore del Περὶ χόσμον:

1. Dio viene presentato come causa della conservazione delle realtà a lui più distanti (le realtà sublunaridivenienti e corruttibili) (398a4);

2. Dio viene paragonato al Gran Re (μεγάλον Βασιλέως) (398a10-11);

3. Dio somiglia anche a quei burattinai che, “tirando una sola cordicella, fanno muovere collo e mani del loro fantoccio animato, e spalle e occhi e anche tutte quante le membra, con una certa euritmia” (398b16 e sgg);

4. Dio viene paragonato anche al corifeo[10] (399a14 e sgg);

5. L’azione di Dio viene paragonata al trombettiere che, nelle fasi di guerra, al suon di tromba ordinatamente fa muovere le truppe (399a35 e sgg);

6. Dio viene paragonato alle chiavi di volta delle strutture architettoniche, (399b29 e sgg)[11];

7. Dio viene paragonato alla legge che regola la vita della πόλις, (400b8 e sgg);

 

A questo punto sono necessarie alcune osservazioni:

Nonostante le novità, molto spesso anche radicali e rivoluzionarie, che il pensiero dello Stagirita presenta a diversi livelli rispetto ai pensatori a lui precedenti, c’è da dire che neanche Aristotele sembra sia riuscito a svincolarsi da quella Waltanschaung che P. Philippson (2006) ha definito “pensiero polare”, e che fu propria del modo d’intendere il mondo dei greci (pp. 81-83; Gallo, 2015). Difatti, nel Περὶ χόσμον Dio è sì il “fondamento teologico” del Tutto, ma lo è soprattutto nel senso di essere “causa dell’armonia” (Il trattato Sul cosmo, p. 335) che nel cosmo sussiste a tutti i livelli[12].

Tra il piano della natura e la dimensione del Trascendente non c’è soluzione di continuità. Forzandone il senso, potremmo dire con Eraclito: “ὁδὸς ἄνω κάτω μία καὶ ὡυτή” [La via in su e la via in giù sono una sola e medesima] (Eraclito, DKB60), nel senso che, in ultima analisi, l’intreccio tra il discorso fisico e quello metafisico sia nel De generatione et corruptione sia nel Περὶ χόσμον[13] s’instaura sempre nell’orizzonte della ricerca naturalistica e non esce fuori di essa[14].La struttura gerarchica della realtà nella prospettiva aristotelica non presenta discontinuità radicali. Se dalla prospettiva cristiana è vero che tra Dio e il cosmo c’è uno iato ontologico radicale (non fosse altro che per il fatto che Dio è l’Esse ipsum subsistens, e il cosmo deve la sua esistenza totalmente e radicalmente a Lui), nella visione aristotelica questo non è ammesso, posto che una sorta di “catena d’oro” congiunge il Motore al mosso, il generatore di energia alla fabbrica di assemblaggio delle forme nel mondo sublunare.

Ne Il concetto difilosofia primae l’unità della Metafisica di Aristotele lo studioso G. Reale (2008), polemizzando contro l’interpretazione fisicista di Owens della teoria delle quattro cause di Aristotele, scrive: “ora, che le cause e i principi non possano essere physical principles è dimostrato da questo: che Dio è posto fra le cause e i principi, e Dio non può dirsi a Physical principle, né un element of things” (pp. 35-36). Ma proprio questo, invece, che emerge a seguito di una indagine soprattutto teoretica (che tuttavia non viola, né manipola il dato storico, ma anzi lo approfondisce), dai passi dello Stagirita: il Dio di Aristotele sembrerebbe essere davvero un Physical principle, nonostante nel Περὶ χόσμον, venga ribadita a più riprese dall’autore la sua trascendenza.

Similmente a quanto ha fatto Cornelia de Vogel per Platone, anche Berti (2012) ha cercato di mostrare che “si deve riconoscere che la tendenza preponderante del pensiero aristotelico, è verso il superamento del dualismo in una concezione organica, cioè fondamentalmente unitaria della realtà e dell’uomo” (pp. 281-315). Per quanto riguarda il rapporto tra Dio e il mondo, in particolare, Berti ha avuto il grande merito di evidenziare che “la difficoltà che hanno sempre i cristiani a considerare il principio posto da Aristotele come il principio dell’essere” deriva dal fatto che “l’opposizione tra causa del movimento e causa dell’essere suppone, in effetti, una concezione dell’essere del tutto estranea ad Aristotele” (p. 299), ma che anzi fu rifiutata dallo stesso Aristotele (Reale, 2008, pp. 409-446). Ciò è vero nella misura in cui essere, per Aristotele, “non significa solo esistere, ma molte cose” (Berti, 2005, p. 297). Ecco perché, secondo Berti, l’essere “causa motrice non è, per Dio, una limitazione nell’intensità dell’azione causale” (p. 299).

Dalla prospettiva di Aristotele, come ho già scritto più sopra, questo però non significava parzialità e incompiutezza. Il suo concetto di Dio, anzi, rendeva coerente tutto lo scenario della realtà, dai suoi elementi infimi e mondani, fino al terzo genere di sostanze, cioè quelle immateriali e incorruttibili. Con il rischio di spazializzare e localizzare la trascendenza di Dio, potremmo affermare che il Primo Motore Immobile si trova al confine tra il cosmo e la vera trascendenza, il cui vero e profondo significato è stato guadagnato, però, solo a partire dalla Rivelazione cristiana.

Secondo Berti (2005), “il fatto che Dio sia solamente causa motrice, e non causa formale o materiale delle cose, non gli impedisce di essere causa totale delle cose, anche nel senso dell’intensità”[15] e infatti:

 

Bisogna ammettere, al contrario, che grazie alla sua concezione speciale dell’essere, Aristotele è riuscito a concepire una dipendenza delle cose rispetto a Dio, la quale, senza identificarsi con la creazione nel senso biblico, è ugualmente totale, sia dal punto di vista dell’estensione che dal punto di vista dell’intensità. (p. 301)

 

Mi sembra si possa discutere su questa posizione e anzi ritengo che forse sia più corretto affermare il contrario: l’azione causale del Primo Motore Immobile origina solo un modo d’essere degli enti, ma non gli concede l’esse. Dal punto di vista della chimica, ad esempio, potremmo dire che per il fatto che a determinate condizioni di temperatura e pressione un particolare sistema abbia una certa conformazione, non vuol dire che quelle stesse condizioni siano la causa totale di quel sistema, ma solo di quella particolare conformazione. Venute meno quelle condizioni, infatti, il sistema non si annichilisce, ma cambia fase, e si scompone oppure si riconfigura secondo altre modalità (coerentemente con le nuove condizioni esterne di temperatura e pressione), ma comunque permane nell’essere, seppure in un altro modo. Ancora secondo Berti (2005):

 

Per stabilire esattamente il rapporto che esiste tra questa dipendenza e la creazione, si dovrebbe determinare esattamente il significato filosofico di questo concetto, tenendo conto del fatto che, per la sua origine biblica, esso non implica necessariamente una concezione dell’essere di tipo parmenideo o platonico. Io tendo a credere che ciò che distingue il rapporto tra il mondo e Dio, ammesso da Aristotele, dalla creazione rivelata dalla Bibbia non è una concezione dell’essere, ma piuttosto l’esclusione, da parte di Aristotele, che Dio possa conoscere ed amare altro che sé stesso. (p. 301)

 

A differenza di Berti, io tendo a credere che sia vero esattamente il contrario: è proprio la concezione ontologica di Aristotele, a mio avviso, che pone una radicale irriducibilità tra il rapporto tra il mondo e Dio inteso dallo Stagirita e il modo, invece, così com’è inteso dai cristiani. Per Aristotele l’essere si dice originariamente in molti modi, per i cristiani, invece, in un solo modo (Gilson). Per Aristotele l’essere appartiene di diritto a tutto il reale (anzi: l’essere è tutto il reale), seppure in modi e misura differente, mentre per i cristiani l’essere appartiene essenzialmente solo a Dio, e a tutto il resto in modo partecipativo. Il fatto che il Primo Motore Immobile ami se stesso è dovuto proprio a questo, cioè alla garanzia, che ad Aristotele veniva proprio dalla sua ontologia, che se anche Dio non amasse il mondo (come difatti non lo ama), il mondo comunque continuerebbe ad essere per sempre, grazie all’azione indiretta, non personalistica né volontaristica del Primo Motore Immobile che davvero, in ultima analisi, può essere inteso come la “centrale elettrica della natura”.

 

Ulteriori approfondimenti sul Περὶ χόσμον, e confronto dei

risultati della ricerca con alcuni passi di Tommaso d’Aquino

 

In questo paragrafo mi limiterò a tirare le somme del discorso cominciando ancora con alcuni illuminanti passi di Gilson (2007) sulla metafisica aristotelica:

 

Aristotele non conosceva che una teologia, quella che fa parte della metafisica; san Tommaso ne conosceva due, quella che fa parte della metafisica e quella che la trascende, perché si fonda sulla parola di Dio. Ora queste due teologie tomiste non potevano restare estranee l’una all’altra, poiché il loro oggetto era lo stesso, benché conosciuto sotto due luci distinte. (p. 74)

 

E più oltre scrive:

 

Senza dubbio, Aristotele considera la metafisica come il più perfetto dei saperi, e poiché insegna che conoscere perfettamente vuol dire conoscere la causa prima, bisogna pure, che Aristotele abbia inteso la metafisica come ordinata “nella sua interezza” alla conoscenza della causa prima. Tuttavia non ha affermato niente di simile e forse non poteva neppure affermarlo per il semplice motivo che la nozione di una causa assolutamente prima in tutti gli ordini gli faceva difetto [corsivo miei]. (p. 77)

 

E così lo studioso francese infine conclude:

 

Il dio di Aristotele è sicuramente una delle cause e uno dei principi di tutte le cose, non è la causa e il principio unico. In mancanza della nozione di creazione c’è, in Aristotele, quella dell’essere di cui Dio non dà ragione: la materia; la metafisica di Aristotele non può dunque ordinarsi “tutta quanta” verso Dio, perché la materia si oppone, come un dato irriducibile a Dio stesso, al fatto che la filosofia termini veramente tutta nella teologia. (p. 78)

 

Quanto Gilson afferma nel primo passo che ho riportato risulta assai convincente proprio sulla base degli testi stessi dello Stagirita. Che per Aristotele la teologia sia una determinazione della metafisica, cioè della πρώτη φιλοσοφία, è stato già più volte osservato. La sostanza in quanto sostanza è “l’unità analogica” dei rapporti tra i diversi tipi di sostanze e le corrispondenti scienze, e infatti l’usiologia aristotelica si scandisce e si determina proprio nel rapporto analogico tra questi elementi, così come la “matematica assunta in senso generale altro non è che l’unità analogica delle singole discipline matematiche (aritmetica, geometria, stereometria, astronomia e musica)” (Metafisica, p. 47). Così, dunque, la “teologia: sostanza immobile = fisica: sostanza diveniente = biologia: sostanza vivente = zoologia: sostanza animale” (p. 48). La teologia aristotelica, quindi, si ricava un posto nell’impianto epistemologico e dottrinale della πρώτη φιλοσοφία, come momento, seppure importantissimo e fondamentale, dello studio della sostanza. La sostanza intelligibile e immobile (oggetto di studio della teologia)

 

Non costituisce un’alternativa alla sostanza in quanto sostanza, ma –al contrario– mercé il rapporto con la scienza che la studia, ossia la teologia, concorre alla definizione della sua determinatezza semantica e dottrinale, così come vi concorre ogni termine della consecuzione delle sostanze. (p. 48)

 

Ben diverso è il discorso per quanto concerne Tommaso, per il quale la teologia si fonda sui principi rivelati da Dio –“doctrina sacra credit principia revelata sibi a Deo” (S. Th. I, q. 1, a. 2)–, e che quindi non solo è più certa di tutte le altre scienze (che si fondano solo sul solo “lume naturale della ragione”), ma fuoriesce da qualsiasi tipo di intreccio analogico con le altre discipline: l’unità analogica prospettata da Aristotele, infatti, viene frantumata dalla Rivelazione cristiana che gerarchizza, dunque, il sapere scientifico ponendo uno iato davvero radicale tra le scienze e la teologia che in Aristotele, evidentemente, non era contemplato[16]: dalla prospettiva cristiana, infatti,tutto il sapere è ordinato a Dio in quanto Causa dell’essere, Fondamento Assoluto e Principio Primo e Unico[17]. Non poteva essere così, evidentemente, per Aristotele, dato che riteneva il Primo Motore Immobile solo come una delle cause della realtà. Anche il modo stesso in cui Aristotele presenta in Metafisica la necessità di quest’ulteriore determinazione del “sapere teorico” (Berti, 1965, p. 90), cioè la teologia, conferma quanto scritto fino a questo punto: “Ma se esiste qualcosa di eterno, immobile e separabile, è chiaro che il conoscerlo è proprio della scienza teoretica, ma non certo della fisica, né della matematica” (Metafisica,VI, 1,1026a10 e sgg.), mostrando come la teologia aristotelica si ricava un posto a partire dalla stessa indagine scientifica sulla natura delle diverse sostanze.

Inoltre, è vero che la materia si oppone “come un dato irriducibile a Dio stesso, al fatto che la filosofia termini veramente tutta nella teologia”, ma la questione è ancor più radicale, come lo stesso Gilson (2007), nel secondo capitolo de L’essere e l’essenza ha spiegato magistralmente. Non solo la materia si oppone all’orientamento teologico della metafisica di Aristotele, ma addirittura anche l’ingenerabilità della forma si oppone a questo coronamento. Nel settimo capitolo del libro Zeta della Metafisica lo Stagirita presenta le tre forme di divenire: “il divenire ad opera della natura, il divenire ad opera dell’arte e il divenire ad opera del caso”. Per quanto concerne il primo modo, che è quello che qui c’interessa in modo esclusivo, Aristotele specifica che per la generazione degli enti naturali c’è bisogno di un qualcosa “da cui” derivano (la materia), di un qualcosa “per cui” si generano, e di un qualcosa “a cui” tendono. Nello schema prospettato da Aristotele, non esiste un mutamento, cioè un divenire, dal nulla, ma esso è sempre un divenire “da” qualcos’altro. Nel capitolo seguente, l’ottavo, Aristotele afferma che anche la forma è ingenerabile (essa può essere trasmessa da chi già la possiede –è il caso dei genitori e del generato– oppure può sopraggiungere istantaneamente come nel caso delle produzioni artigianali), e che solo il sinolo si genera realmente, ma sempre ad opera di forse naturali o di attività umane, come nel caso dell’arte. Il cosmo sublunare aristotelico è, dal punto di vista degli enti naturali, un complesso circuito in cui le forme passano continuamente da un sostrato all’altro per l’azione diretta del movimento del sole che a sua volta concede ad altri enti la capacità attiva di contribuire al continuo transito delle forme, nella modalità perfettamente illustrata da Berti (2006):

 

Cosa c’entra il sole? Beh, se non ci fosse il sole, non ci sarebbe calore sulla terra, non ci sarebbe l’alternarsi delle stagioni, non nascerebbero le piante e quindi gli animali non avrebbero di che nutrirsi, non ci sarebbe la vita; il sole è causa della vita, il calore del sole è quindi una delle cause della generazione, non ci sono solo il padre e la madre, ci vuole anche il sole. Ecco allora come gli astri intervengono, ecco una dipendenza della vita terrestre dai fenomeni celesti, il che già crea le condizioni per il grande discorso che vedremo nel libro dodicesimo, in cui Aristotele determinerà come causa prima efficiente un primo motore immobile, in quanto motore degli astri. (p. 106)[18]

 

La forma, essendo ingenerabile –quindi incorruttibile– ed essendo sostanza in senso pieno (posto che essa risponde perfettamente alle “caratteristiche costitutive” della sostanza indicate da Aristotele[19]), è per Aristotele il cuore stesso del reale (Berti, 2006, pp. 86-87). Dal punto di vista cristiano, invece, comprendere ciò che una cosa è, non vuol dire ancora comprendere in modo ultimativo e fondamentale il perché della sua esistenza. A proposito della causazione del Primo Motore Immobile, vale a dire la causa remota del ciclo eterno di generazioni e corruzioni del mondo sublunare, Gilson (2007) scrive:

 

In breve, il Primo Motore Immobile di Aristotele è la sostanza prima, causa della sostanzialità di tutte le altre sostanze e per conseguenza, causa del loro essere stesso in quanto esse sono delle sostanze”, e poi conclude: “ma se esso è causa di ciò che il mondo è, non lo è del fatto che il mondo esista”. (p. 55)

 

Per quanto concerne il mondo sublunare è giusto quindi affermare che la causazione del Dio aristotelico, non esce fuori dal “circolo chiuso del sinolo” (Pangallo, 2014, p. 13). Il Dio dei cristiani, invece, essendo causa totale di tutte le cose “non solo in quanto esse sono queste o sono tali, ma in quanto sono enti”, poiché “la causa delle cose in quanto enti deve causarle non solo rendendole tali con i loro accidenti, o queste con le loro forme sostanziali, ma causarle in tutto ciò che in qualsiasi maniera appartiene alla loro concreta esistenza” (S. Th. I, q. 44, a. 2), spezza letteralmente il “circolo chiuso del sinolo”. La visione cristiana del mondo, scrive bene Gilson (1947) non rappresenta solo un modo nuovo dei credenti di vedere le cose, ma è addirittura una “novità metafisica”:

 

Leggendo nella Bibbia l’identità dell’essenza e dell’esistenza in Dio, i filosofi cristiani non potevano non vedere che l’esistenza non è identica all’essenza in niente altro che Dio. Ora, da quel momento il moto cessava di significare solo la contingenza dei modi di essere, o anche la contingenza della sostanzialità degli esseri che si fanno o si disfanno secondo le loro cangianti partecipazioni all’intelligibile della forma o dell’idea; significava la contingenza radicale dell’esistenza stessa degli esseri in divenire. Nel mondo eterno di Aristotile, che dura al di fuori di Dio e senza Dio, la filosofia cristiana introduce la distinzione dell’essenza e dell’esistenza. Non solo resta giusto dire che, eccetto Dio, tutto ciò che è potrebbe non essere ciò che è; ma diviene giusto dire che, eccetto Dio, tutto ciò che è potrebbe non esistere. (p. 54)

 

È proprio nell’art. 2 della quaestio 44 della Somma Teologica di Tommaso che il superamento della posizione di Aristotele espressa nel libro Zeta della Metafisica diventa evidentissimo. Nella prima soluzione delle difficoltà, infatti, l’Aquinate ribadisce che per quanto concerne “la produzione particolare delle cose” la materia prima (nella quale la materia propria si risolve[20]), intesa come sostrato avente la capacità di accogliere i contrari (vale a dire le forme) nel susseguirsi delle generazioni, è davvero irriducibile ad altro, ed è quindi punto di partenza per il processo delle generazioni e corruzioni del mondo sublunare. Dalla prospettiva fisica, dunque, la materia prima si oppone davvero ad una teologizzazione della metafisica, ecco riconfermata l’affermazione di Gilson (2007): “la metafisica di Aristotele non può dunque ordinarsi “tutta quanta” verso Dio, perché la materia si oppone, come un dato irriducibile a Dio stesso, al fatto che la filosofia termini veramente tutta nella teologia” (p. 78).

Tuttavia, Tommaso spiega che dalla prospettiva della metafisica cristiana dell’essere anche la materia prima, che nei processi continui di generazione e corruzione del mondo sublunare è un punto di partenza irriducibile (in quanto ὑποκείμενον) della speculazione aristotelica, deriva ab universali principio essendi. Da quest’ultimo rilievo, dunque, si riconferma indirettamente la tesi di partenza: il Dio di Aristotele è davvero una “centrale elettrica della natura”, dato che la sua azione causale conservatrice è riconducibile nell’orizzonte stesso della realtà fisica, la quale è in continuo movimento, in costante equilibrio e coeterna alla causa che la conserva in questo stato.

 

Conclusioni

 

Aristotele, nel secondo capitolo del libro Alpha della Metafisica, afferma che la σοφία è un tipo di sapere “non umano” e quindi divino, dato che a)essa appartiene in modo assoluto a Dio, e solo in misura limitata e in modo discontinuo è conseguibile dagli uomini[21], e che b)essa ha come oggetti d’indagine realtà divine (essa è infatti scienza di cose divine, e quindi teologia)[22]:

 

Ché, è massimamente divina e massimamente degna d’onore [scil. la sapienza]. Ed essa sola può essere tale, in due sensi: infatti, fra le conoscenze indefettibili è divina sia quella che soprattutto Dio può possedere, sia se una abbia per oggetto le cose divine. (Metaph., I, 2, 983a5 e sgg.)

 

Reale (2008) spiega in questo modo il passo di Aristotele:

 

Il passo dà, inoltre, la ragione per cui la nostra scienza deve necessariamente essere “di cose divine”. Sapienza è scienza delle cause e dei principi primi; ora Dio è, appunto, causa e principio –causa e principio supremo–; da ciò segue che la dottrina delle cause e dei principi primi necessariamente deve aver Dio come oggetto, ossia che deve essere teologia. “Aitiologia” o “archeologia” e “teologia” risultano, in tal modo, nel pensiero aristotelico, strutturalmente connesse, quindi inscindibili. (pp. 21-22)

 

Nel commento alla Metafisica lo studioso si spinge addirittura oltre scrivendo che la concezione teologica che emerge da Metafisica I, 2983a 4-10 è quella di un “Dio in certo senso personale, cioè pensante e conoscente” (Metafisica, p. 711). Tuttavia, il Primo Motore Immobile difetta della libera volontà (S. Th. I, q. 19 a. 1 e 2) per poter soddisfare pienamente l’interpretazione di Reale. Alla luce di quanto scritto fino a questo momento, sembrerebbe essere più appropriata l’interpretazione che dello stesso passo ha dato Zanatta (2009), il quale si è espresso in questi termini:

 

Come si accennava, la difficoltà può superarsi, invece, lungo la linea che s’è indicata, ponendo cioè l’accento sulla convergenza, meglio sull’identità del senso soggettivo e del senso oggettivo del carattere divino della sapienza: ché, essendo Dio causa e principio, non è affatto contraddittorio che egli, conoscendo se stesso, conosca le cause e i principi primi. Si tratta di calibrare la portata di quest’ultima affermazione. Dio non conosce tutte le cause e tutti i principi primi, ossia, posto, come vedremo, che le cause e i principi primi sono di quattro tipi, e sono tali non perché vi siano quattro supremi principi della totalità dell’esistente, ma perché, pur essendo i principi primi differenti per ogni genere di realtà, tutti si unificano analogicamente nei tipi sopraddetti, Dio non conoscere ogni principio spremo e ogni causa prima di ciascun genere di enti, ma conoscere quella causa prima e quel principio supremo della realtà della quale egli è tale: ossia, per l’appunto, conosce se stesso come causa prima e principio supremo di ciò rispetto a cui ha funzione causante: il Primo Motore Immobile rispetto al primo cielo, gli altri Motori Immobili rispetto al cielo di cui sono motori. –a ben vedere– è proprio questo che Aristotele afferma nel passo in oggetto, non che Dio sia causa prima e principio supremo della totalità del reale. Egli, infatti, dice lo Stagirita, “fa parte delle cause” ed “è un certo principio”: il principio, per l’appunto, della realtà sulla quale esercita la sua causazione, non il principio assoluto, vale a dire di tutto l’ente. (Metafisica, p. 370)

 

Questo è proprio ciò che emerge anche dal Περὶ χόσμον. La trascendenza di Dio è più volte affermata, ma in realtà mai totalmente guadagnata[23] poiché “affermare che Dio è trascendente significa affermare ch’Egli è assolutamente Altro rispetto al mondo intero” (Pangallo, 1992, p. 46). Tuttavia, è proprio questo che manca ad Aristotele e, in generale, alla tradizione greca. È vero che:

 

Motore Immobile, Causa Prima, Ente assolutamente Necessario, Perfezione di tutte le Perfezioni, Fine Ultimo sono attributi che ci spiegano il significato metafisico della trascendenza divina, insieme agli attributi della Assoluta semplicità e dell’Infinità”, ma è altrettanto vero però che questi attributi “fanno capo al Nome più appropriato che si possa dare a Dio: Atto puro di essere, Essere sussistente. (Pangallo, 1992, p. 46)

 

Ma fino a che punto si può affermare che senza l’aiuto della Rivelazione di Dio (penso soprattutto ad Esodo 3,14[24], ma non solo a questo passo ovviamente) l’uomo sarebbe comunque giunto ad una metafisica dell’essere di tipo creazionista?

Aristotele è giunto a considerare solo un attributo di Dio, quello che lo considera come Causa Prima del movimento (e sappiamo che il movimento, nel De generatione et corruptione, è fortemente legato alla sua –cioè di Aristotele– concezione ontologica).

Nonostante la profondità e l’acume filosofico che hanno impresso il nome di Aristotele nel marmo della storia del pensiero occidentale, lo Stagirita non è riuscito a guadagnare ciò che solo la Rivelazione avrebbe donato agli uomini. Nell’art. 2 della q. 46 della Somma Teologica Tommaso scrive che “il cominciamento del mondo non può essere dimostrato partendo dal mondo medesimo”. Nel capitolo quarto del secondo libro della Somma contro i Gentili, infatti, l’Aquinate ha spiegato in cosa differisce il punto di vista del filosofo da quello del teologo: il primo considera le cose “per quello che sono”, invece la “la fede cristiana non le considera per quello che sono in sé stesse”, ma in quanto sono ordinate a Dio –“invece il credente considera nelle creature il loro riferimento a Dio: ossia il fatto che sono create da Dio, che a lui sono soggette, ed altre cose del genere” (C. G. II, 4).

Ma per considerare gli enti in riferimento a Dio (cosa che anche Aristotele ha parzialmente fatto per quanto concerne il movimento, i fenomeni meteorologici, la generazione e la corruzione ecc., seppure in modo radicalmente diverso dai cristiani[25]) dal punto di vista esistenziale era indispensabile per l’uomo comprendere che tutto ciò che esiste, esiste solo per partecipazione all’Esse Ipsum Subsistens, e che Dio, quindi, è Causa non solo del movimento ma anche dell’esistenza delle cose. Ma questa concezione cos’è se non la formulazione metafisica della rivelazione di Esodo 3,14?

Ha ragione Tommaso, dunque, nel ritenere che “non si può investigare razionalmente quale sia la volontà di Dio, se non a proposito di quelle cose che è assolutamente necessario che lui voglia: ma tale certamente non è quanto egli vuole riguardo alle creature” (S. Th. I, q. 46, a. 2), le quali sono, ma sarebbero potute non essere se Dio non l’avesse liberamente voluto. In questo modo l’Aquinate conclude la sua risposta:

 

La volontà divina può essere invece manifestata all’uomo per rivelazione, sulla quale appunto si fonda la fede. Quindi che il mondo ha avuto inizio è cosa da credersi, ma non oggetto di dimostrazione o di scienza. - E questa è una cosa che bisogna tener presente, perché qualcuno, presumendo di dimostrare ciò che è soltanto di fede, non abbia il portare argomenti che non provano, e offrire così materia di derisione a coloro che non credono, facendo loro supporre che noi si credano le cose di fede per degli argomenti di questo genere. (S. Th. I, q. 46, a. 2)

 

La concezione creazionista (che sostiene che il mondo non è sempre esistito ma è venuto ad essere solo per la volontà di Dio) è una concezione che si può tenere solo per fede (sola fide tenetur), sebbene essa non sia completamente impenetrabile alla ragione, una volta però che ad essa è stata Rivelata.

Con un ultimo slancio teoretico, in conclusione di questo lavoro, direi che l’ontologia di Aristotele non deriva dalla sua teologia, ma anzi quest’ultima ne è il risultato (infatti è in occasione della ricerca aristotelica del numero di sostanze esistenti che è emersa la possibilità della teologia come ulteriore determinazione della filosofia prima in quanto usiologia), mentre l’ontologia così com’è intesa dai cristiani, dipende totalmente dalla teologia, anzi, coincide con la teologia, posto che l’essere in senso vero è solo Dio (Gilson, 1947) che è anche Causa Prima, certo, ma dell’esistenza stessa del mondo[26].

 

Riferimenti

 

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Gilson, É. (1947). Lo spirito della filosofia medievale. Morcelliana.

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Philippson, P. (2006). Origini e forme del mito greco. Bollati Boringhieri.

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Tommaso d’Aquino. (1975). Somma contro i Gentili. Utet.

--. (1996). La somma teologica. ESD.

 

 


[1]  Bisogna tuttavia concedere al Primo Motore Immobile anche la conservazione del mondo per se et directe, anche se in un modo infinitamente meno radicale di quello cristiano. Dal Dio di Aristotele, come mostrerò meglio fra poco, non dipende l’essere stesso del cosmo e degli enti, ma l’esistenza sia del primo che dei secondi.

[2]  L’espressione “centrale elettrica della natura”, chiaramente metaforica, chiarisce in verità molto bene la natura della relazione metafisica che il Primo Motore Immobile intrattiene con il cosmo. Al pari di una centrale elettrica, che eroga continuamente, una immensa quantità di energia ai centri produttivi e urbani delle aree limitrofe mettendole in funzione, il Dio aristotelico svolge una funzione di attivazione dei cicli cosmici (celesti e sublunari) che, nella complessità delle rispettive correlazioni, danno forma all’universo per come esso ci appare fenomenicamente. Una centrale elettrica, però, non crea ex novo le città delle limitrofe aree urbane, ma semplicemente le vivifica fornendo loro la necessaria energia per lo svolgimento di tutte le funzioni. Una centrale elettrica, pertanto, pur restando ferma nel suo stabilimento, rende possibile con la sua energia il moto dei centri in cui la sua azione si irradia. La metafora riesce, dunque, a cogliere perfettamente l’azione metafisica del Primo Motore Immobile, evidenziandone tutte le caratteristiche (e anche i limiti) per una spiegazione teologica della realtà.

[3]  Nel De philosophia (2008), ad esempio, Aristotele fornisce delle prove dell’indistruttibilità del mondo basate proprio sulla teoria dei luoghi naturali. Filone, in particolare, ci riferisce che per corrompere un composto com’è il cosmo, bisogna che i suoi costituenti, cioè i quattro elementi siano costretti in luoghi per essi non naturali. Ma pensare questo “non è pio”: “Ché, tutte le parti del mondo hanno avuto in sorte la posizione migliore e l’ordine ‘a loro’ più confacente, così che ciascuna, avendo amore per la propria regione, come per una patria, non cerchi un mutamento verso una migliore” (De philosophia, p. 623). Solo il vincolo che ha stretto una violenza è di breve durata, “giacché viene spezzato più velocemente dagli enti uniti da legami, dal momento che sono riluttanti per il desiderio del ‘loro’ movimento naturale, al quale tendono faticosamente” (p. 621).

[4]  Con causazione per accidens riferita al Dio di Aristotele intendo dire questo: l’azione causale del Primo Motore Immobile, come vedremo fra poco in questo paragrafo, coinvolge direttamente il primo cielo (il cielo delle stelle fisse), il cui movimento mette in moto il movimento degli altri cieli compreso quello sole, la cui rivoluzione determina la generazione continuadegli enti corruttibili nel mondo sublunare nei modi che spiegherò. La generazione continua dura ab aeterno ed è garantita, in ultima analisi, proprio dall’eterna azione causale del Primo Motore Immobile che ne garantisce, quindi, la continuità. Ma se l’eternità del Primo Motore Immobile garantisce la continuità della generazione continua, cioè la continuità della vita della natura per come noi la conosciamo, impedendo così che la grande fabbrica della natura si fermi, anche solo per un secondo, tuttavia non spiega, in modo ultimativo, l’esistenza stessa del cosmo. Che il fatto che il cosmo funzioni bene e continuamente dall’eternità, non ci dà ancora una risposta al perché esiste?, ma risponde bene solo al come fa a conservarsi? Se l’azione del Primo Motore Immobile si arrestasse, gli enti non si annichilirebbero, ma si scomporrebbero nei quattro elementi che ritornerebbero, così, ad occupare i luoghi naturali.

[5]  Sono note agli studiosi le vicende del Περὶ χόσμον che, fin dall’umanesimo (e in modo radicale nell’ottocento) fu ritenuto inautentico. Dopo l’edizione di Bos e Reale (1995), accompagnata da una poderosa introduzione e da un preciso e rigoroso commentario, molti non hanno avuto più dubbi sull’autenticità aristotelica dell’opera.

[6]  Dopo l’approfondimento della seconda definizione di cosmo, si vedrà che è più corretto dire che il cosmo viene mantenuto in equilibrio stabile ed in ordine.

[7]  “Tutti sappiamo che non c’è Afrodite senza Eros. Ora, se Afrodite fosse una sola, uno sarebbe anche Eros. Ma poiché esse sono due, bisogna che ci siano anche due Eros. E come non potrebbero essere due le dee? Una è più antica e senza madre e figlia di Urano, ossia del cielo, che viene chiamata Afrodite Urania, ossia celeste, l’altra è più giovane ed è figlia di Zeus e Dione, che chiamiamo Afrodite Pandemia, ossia volgare. Ne segue che bisogna dare anche all’Eros che si accompagna a quest’ultima l’appellativo Pandemio, ossia volgare, e all’altro, invece, l’appellativo di Uranio, ossia celeste” (Simposio, 180D).

[8]  “E proprio come medico e scienziato della natura, Erissimaco estende il raggio della forza dell’Eros dall’ambito dell’uomo a quello della natura e del cosmo in generale” (Reale, 2008, p. 82).

[9]  “Così, dunque, anche la natura divina, mediante un semplice movimento del primo cielo, elargisce la sua potenza alle cose che vengono subito dopo, e da quelle, ulteriormente, a quelle che sono via via più lontane, fino a che non sia penetrata attraverso la totalità delle cose: infatti ciascuna cosa, essendo mossa da un’altra, a sua volta muove un’altra con ordine, agendo tutte le cose nel modo che si conviene alla loro costituzione, non seguendo tutte una via identica, ma differente e d’altra specie, e, in alcuni casi, addirittura contraria, anche se l’intonazione prima, per così dire, che ha prodotto il movimento, era unica” (Il trattato Sul cosmo, cap. 6, pp. 219-221).

[10]  “E come nel coro, quando il corifeo intona il canto, lo segue tutto quanto il coro di uomini e talvolta anche di donne, che, fondendo le diverse voci acute e gravi producono una sola ben proporzionata armonia, così avviene anche a proposito di Dio che governa l’universo” (Il trattato Sul cosmo, cap. 6, p. 223).

[11]  “Dio assomiglia veramente, anche se è meschino paragonare il cosmo con queste cose a quelle che nelle costruzioni ad arco si chiamano chiavi di volta, le quali, stando nel punto centrale dove si congiungono le due parti laterali, mantengono in equilibrio e in ordine l’intera struttura della volta e la rendono stabile” (Il trattato Sul cosmo, cap. 6, p. 227).

[12]  “Orbene, Dio ha questa stessa funzione nel mondo, in quanto mantiene l’armonia e la conservazione di tutte quante le cose, eccetto che egli non sta al centro, dove c’è la terra e questo luogo impuro, ma sta in alto, puro in luogo puro, che noi chiamiamo con proprietà cielo, dal fatto che esso costituisce il limite supremo” (Il trattato Sul cosmo, cap. 6, 400 a 3 e sgg, p. 227).

[13]  Non dobbiamo ingannarci sulla suddivisione del trattato in due parti: una fisico-cosmologica e l’altra “teologica”. Quando Aristotele, nella seconda parte, parla di Dio, lo fa quasi sempre mostrandone il ruolo fondamentale per il mantenimento della vita del cosmo, del suo equilibrio e, quindi, della sua armonia. Difficilmente, quindi, si trova una sezione teologica senza alcun riferimento, diretto o indiretto, al ruolo fondamentale di Dio nell’economia di tutto il cosmo.

[14]  Inutile accennare, qui, ai libri VII e VIII della Fisica in cui il Primo Motore Immobile entra di diritto nella continuità del discorso fisico, come giustificazione, garanzia e fondamento della vita ( intesa come movimento, anche se aristotelicamente sarebbe più corretto dire: mutamento, μεταβολή) dell’intero sistema.

[15]  “Per stabilire se l’attribuzione ad Aristotele di una concezione dualistica dei rapporti tra Dio e il mondo sia fondata, si deve vedere in quale misura Dio sia veramente per lui la causa del mondo. Quest’esame deve essere fatto sia dal punto di vista dell’estensione, sia dal punto di vista dell’intensità; cioè, si deve esaminare se Dio è causa di tutte le cose, e, poi, se è causa delle cose anche interamente, ovvero dell’intera realtà di ogni cosa” (Berti, 2005, p. 291).

[16]  Ciò non vuol dire che in Aristotele non sia rintracciabile una gerarchia delle scienze (che anzi è affermata esplicitamente dallo Stagirita stesso a più riprese). Tuttavia, la struttura gerarchica delle scienze presente in Aristotele manifesta una perfetta continuità epistemologica dato che: a) essa è riconducibile ad un sapere tutto umano e b) dalle realtà più infime fino al Primo Motore Immobile esiste una continuità ontologica, posto che le piante, gli animali, l’uomo e Dio realmente sono, seppure in modi differenti.

[17]  “I principi delle altre scienze o sono evidenti e indimostrabili, o sono provati razionalmente da una scienza superiore. Ora, la cognizione propria di questa scienza si ha per rivelazione, non già per naturale ragionamento; e quindi non spetta ad essa dimostrare i principi delle altre scienze, ma solo giudicarli: ed invero, tutto ciò che in queste scienze si ritrova in contrasto con la verità di questa scienza, è condannato come falso, secondo il detto di S. Paolo: ‘’Noi distruggeremo i (falsi) ragionamenti e ogni rocca elevata contro la conoscenza di Dio’” (S. Th. I, q. 1, a. 6, ad 2).

[18]  Nel Περὶ χόσμον si legge: “Infatti, al segnale dato dall’alto, da colui che propriamente si potrebbe chiamare corifeo, si muovono gli astri eternamente e tutto quanto il cielo, il sole, che illumina tutte le cose, compie i suoi due viaggi, determinando, con l’uno, il giorno e la notte, ossia con il suo sorgere e tramontare e, con l’altro, portando le quattro stagioni dell’anno, compiendo la sua traiettoria, avanti verso Settentrione e poi indietro verso Meridione. E al momento opportuno si producono le piogge, i venti, le rugiade e gli altri fenomeni della regione che ci circonda ad opera della causa prima e principale. E a questi fenomeni fa seguito i flussi dei fiumi, i rigonfiamenti del mare, la crescita delle piante, le maturazioni dei frutti, la nascita degli animali, le crescite di tutte le cose, il raggiungimento della loro maturità e le loro corruzioni” (Il trattato Sul cosmo, cap. VI, p. 223).

[19]  La sostanza deve essere ciò che non inerisce ad altro, ma anzi sostrato d’inerenza, deve essere separata, ed inoltre anche alcunché di determinato e deve essere, infine, qualcosa di unitario.

[20]  “Ora la materia è sostrato in due sensi: innanzitutto come sostrato proprio di ogni cosa, o meglio di ogni specie di cose, per esempio come marmo, o bronzo, per le statue. Ma poiché a sua volta il bronzo o il marmo sono costituiti dai quattro elementi, che rappresentano i componenti ultimi di ogni cosa sensibile, essa è sostrato anche nel senso di sostrato primo, ossia come ciò che soggiace al fondo delle cose e non è ulteriormente riducibile. In rapporto a questi due modi del sostrato anche la materia è dunque materia propria, dalla quale derivano direttamente le cose, e materia prima, nella quale si risolve la materia propria. Pur essendo la materia in quanto tale potenza, come s’è detto, è chiaro però che la materia prima, o come sostrato primo, lo è maggiormente di quella propria, o come sostrato proprio, essendo maggiormente indeterminata, in quanto atta a ricevere tutte le determinazioni formali e soggiacendo a tutte le cose, mentre quella propria, se non necessariamente soggiace a un solo genere di cose, ma anche a più generi, come il legno all’armadio e al letto (Metaph., VII, 4, 1044a25-27), può tuttavia essere determinata da un numero limitato di forme” (Metafisica, p. 91).

[21]  Alessandro di Afrodisia (2007) commenta in questo modo: “Per questo Aristotele dice anche che il possesso di questa conoscenza a ragione è ritenuto non proprio dell’uomo, ma di Dio. Infatti gli uomini in molti casi, a causa dei bisogni, si dimostrano schiavi, e in funzione dei bisogni sono costretti a compiere molte azioni; avendo una tale natura, per loro la salute, la prosperità e ogni cosa di tal fatta è un bene, e quindi si affannano in cose di questo genere. La divinità è invece libera da ogni bisogno” (p. 37).

[22]  Alessandro di Afrodisia (2007): “Ma questa scienza è divina anche perché è conoscenza delle cose divine, se è vero che è conoscenza delle cause prime e dei principi e che Dio è il primo principio e la causa delle altre cose. Con queste considerazioni Aristotele ha mostrato che la presente trattazione a buon diritto ha il nome di teologia. Egli afferma che tutte le altre scienze sono più necessarie di essa (e in realtà essa non è affatto necessaria), ma nessuna è migliore, perché questa è migliore di tutte, se è più degna di apprezzamento” (p. 39).

[23]  Mondin (1998), invece, ha un diverso pensiero a riguardo: “Di Dio Aristotele ha un concetto altissimo, indubbiamente monoteistico. La sua trascendenza è radicale. Egli è assolutamente immobile (akineton): si sottrae infatti alle condizioni dello spazio e del tempo, e così esiste all’infuori del cosmo” (p. 356).

[24]  Per quanto concerne Aristotele la risposta è abbastanza chiara. La sua concezione ontologica, infatti, si oppone radicalmente ad una metafisica dell’essere di tipo creazionista. Sono note le critiche dello Stagirita agli Eleati (si veda a questo proposito in particolare Fisica I, 2), sia ai Pitagorici e a Platone (si veda a questo proposito il fondamentale libro delle aporie della Metafisica, cioè il libro terzo, ed in particolare l’undicesima aporia). L’essere parmenideo “assorbe in sé, come sappiamo, ogni differenza e ogni molteplicità, sì che ricondurre le cose all’unità significa, nella prospettiva parmenidea, negare loro il valore di realtà” (I principi del divenire, p. 19), mentre la concezione metafisica di Platone, pur superando quella eleatica (si ricordi il parricidio di Parmenide (Sofista 241D), “per il fatto di avere concepito l’essere non più come uno, cioè indifferenziato e omogeneo, ma come molteplice, cioè differenziato, eterogeneo” (Berti, 2005, p.  356), ha avuto bisogno del non essere per la differenziazione dell’essere. Aggiungerei, inoltre, che anche un secondo elemento, non meno fondamentale dell’altro appena rilevato sulla scia di Berti (cioè la molteplicità dell’essere ammessa dal filosofo ateniese, nella misura in cui le Idee sono molteplici), non ha permesso un reale superamento della posizione eleatica: la cattiva considerazione del divenire, inteso come un quasi non essere e delle realtà empiriche considerate, dal punto di vista ontologico, come qualcosa d’intermedio (μεταξύ) tra il puro non essere e il vero essere (παντελως ὄν). Per lo Stagirita, invece, l’essere è originariamente ed irriducibilmente multivoco (πολλαχως λέγεται τὸ ὄν). Non potrebbe esistere, per Aristotele, un Esse Ipsum Subsistens senza con ciò ricadere nel monismo parmenideo. Dal punto di vista filosofico (e in particolare dal punto di vista dello Stagirita) questa conclusione è assolutamente coerente. Senza l’idea di un Dio creatore del cielo e della terra (quindi Causa efficiente del mondo anche sotto il profilo dell’esistenza), la cui essenza è il suo stesso essere, che ama gli uomini e desidera la loro salvezza ecc. (cioè dal punto di vista della metafisica aristotelica), l’idea di un Esse Ipsum Subsistens sarebbe stato un altro modo per affermare la sostanzialità dell’Essere e dell’Uno (che nella concezione eleatica coincidono) che lo stesso Aristotele ha espressamente rifiutato nei luoghi più sopra citati. Scrive Berti (2005): “la causa della ricaduta nel monismo, secondo Aristotele, sarebbe stata la concezione dell’Essere e dell’Uno come generi, vale a dire come realtà omogenee, espresse da nozioni univoche, cioè dotate di un unico significato, precisamente come era, sempre secondo Aristotele, l’Essere di Parmenide. Ciò significa per chi consideri il problema alla luce dell’intera storia della filosofia, che Aristotele in un certo senso confutò in anticipo tutta una tradizione di pensiero che in gran parte si sarebbe richiamata proprio alla sua filosofia, mostrando che su una questione cruciale come la natura dell’essere e dell’uno tale tradizione non sarebbe stata genuinamente aristotelica, ma piuttosto sostanzialmente platonica” (p. 379).

[25]  Scrive Berti (2006): “Mi è stato chiesto se, considerando tutti i motori in analogia tra di loro, è possibile che il primo motore immobile sia il termine col quale tutti gli altri stanno in relazione secondo la dottrina della relazione pros hen, cioè di quella che ho chiamato l’omonimia relativa. Molti studiosi di Aristotele oggi –Owens, Patzing, Frede– ritengono di si. Io ritengo di no. Secondo me il rapporto che c’è tra le categorie e la sostanza non si può riprodurre tra le sostanze sensibili e la sostanza immobile. Perché l’omonimia pros hen implica una priorità non solo ontologica, ma anche logica, del primo rispetto agli altri, in quanto il primo è contenuto nella nozione, nella definizione degli altri. Questa priorità logica, secondo me, non si può applicare al motore immobile. Nella nozione delle sostanze sensibili non è contenuto un riferimento al motore immobile. Il loro essere sì, ne dipende, come il loro generarsi, quindi una dipendenza ontologica per le ragioni che abbiamo visto prima. Non c’è una dipendenza logica, se per logica si intende nella nozione, nella definizione. Altrimenti noi non potremmo conoscere nulla senza fare continuamente riferimento al motore immobile; invece le scienze hanno una loro autonomia e sono perfettamente in grado di conoscere le sostanze sensibili senza bisogno della metafisica” (p. 169).

[26]  “Questa conquista metafisica segnava evidentemente un progresso considerevole per la nozione di Dio; ma essa modificava correlativamente, e in modo non meno profondo, la nozione dell’universo quale era stata concepito sino allora. Dal momento nel quale il mondo sensibile si considera come il risultato di un atto creatore, che non solo gli diede l’esistenza, ma gliela conserva in ciascuno dei momenti successivi della sua durata, esso si trova in una tale dipendenza che lo colpisce di contingenza sino alla ridice del suo essere. In luogo di essere sospeso alla necessità di un pensiero che si pensa, l’universo è sospeso alla libertà di una volontà che lo vuole. Questa veduta metafisica ci è oggi famigliare, perché il mondo cristiano non è solo quello di San Tommaso, di San Bonaventura e di Dun Scoto, è pure quello di Descartes, di Leibniz e di Malebranche; noi non ci rendiamo più se non difficilmente conto del cambiamento di prospettiva ch’essa suppone rispetto alla concezione greca della natura” (Gilson, 1947, p. 56).